Il Decreto legge del Governo Draghi sulla cessione delle armi all’Ucraina (d’ora in poi “Decreto Armi”) solleva profondi interrogativi morali ed è in palese violazione degli articoli 11, 77, 78 e 87 della Costituzione.

Per capirlo leggiamo anzitutto l’articolo rilevante del Decreto legge.

Decreto Armi

Art. 1 (Cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari)

    1. Fino al 31 dicembre 2022, previa risoluzione delle Camere, è autorizzata la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina, in deroga alle disposizioni di cui alla legge 9 luglio 1990, n. 185 e agli articoli 310 e 311 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 e alle connesse disposizioni attuative.
    2. Con uno o più decreti del Ministro della difesa, di concerto con i Ministri degli affari esteri e della cooperazione internazionale e dell’economia e delle finanze, sono definiti l’elenco dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari oggetto della cessione di cui al comma 1 nonché le modalità di realizzazione della stessa, anche ai fini dello scarico contabile.[1]
  1. Concorso di persone nel reato e cooperazione al male

Prima di entrare nel merito specifico della normativa del Decreto Armi voglio chiarire alcuni presupposti giuridici ed etici per la corretta analisi dell’azione oggetto di tale decreto.

La premessa da cui partire è che vi è in atto una guerra tra Russia e Ucraina e che il decreto Armi stabilisce di dare ad una delle parti mezzi per combatterla. Se l’evento in corso tra Russia ed Ucraina si può descrivere correttamente come “guerra” allora l’Italia sta in qualche modo prendendo parte in questo evento “guerra” direttamente e in maniera volontaria.

Facciamo finta che questo evento sia illecito, come potrebbero esserlo l’omicidio o la rapina nel diritto penale. In questo caso, se mentre è in corso un omicidio o una rapina una terza parte ne partecipa volontariamente si parla di «concorso di persone nel reato» (Codice penale, Libro I, Titolo IV, Capo III) che viene disciplinato in questo modo:

Codice penale

Art. 110 (Pena per coloro che concorrono nel reato)

Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita […].

La regola generale nel diritto penale è dunque che chi concorre nel reato è parimenti responsabile di esso e ne risponde allo stesso modo. Se una persona fornisce la pistola all’omicida sapendo che intende usarla per uccidere diventa omicida ella stessa. Se una persona dà i soldi necessari per organizzare una rapina è parimenti rapinatore e viene punito allo stesso modo di chi compie la rapina.

In etica classica e cristiana, questo stesso principio si esprime in termini di cooperazione al male, che quando è formale, cioè col consenso intenzionale di chi coopera, non è mai lecita.

«Dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male».[2]

Anche la cooperazione materiale – quella cioè che non condivide l’intenzione cattiva del reo – è considerata illecita ma in alcuni casi è scusabile: cioè, quando non verte su un atto intrinsecamente cattivo, quando ci sono motivi proporzionalmente gravi per cooperare e a patto che si cerchi di fare desistere il malfattore. L’uccisione di un innocente, ad esempio, non sarebbe mai lecita, neppure per motivi gravi.[3]

Cito il caso della cooperazione al male per fare capire che, in questo ambito, il diritto vigente e la morale tradizionale sono perfettamente allineati: chi prende parte ad un’azione cattiva ne risponde allo stesso modo di chi la esegue. Naturalmente, per la stessa logica vale anche il principio opposto, che chi prende parte ad un’azione buona partecipa della bontà di essa.

Una differenza riguarda però il fatto che il diritto, come si suol dire, non richiede di essere eroi. Se qualcuno ha commesso un reato per paura di un pericolo proporzionato al reato, non vi è motivo di punirlo perché non si tratta di una persona che, salvo quel caso eccezionale di pericolo, mina con la sua condotta le basi del vivere civile.

Codice penale

Art. 54 (Stato di necessità)

Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.

Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.

La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.

Il diritto non ha tendenzialmente interesse, per capirci, nel mettere in carcere qualcuno che, solo per salvarsi la vita, ha obbedito al comando di uccidere un innocente. Per la morale, invece, questo rimarrebbe un peccato di cui pentirsi e per cui espiare. Per il diritto il reato c’è ma è inutile punirlo. Per la morale, il peccato c’è e se ne risponde, anche se l’intenzionalità può essere più lieve. Il reato, per dirla così, ha un ambito di interesse e di applicazione più ristretto del peccato.[4]

Non vi è dubbio che, decidendo di fornire armi ad una delle parti di una guerra in corso, l’Italia stia partecipando all’azione descrivibile come “guerra”. L’Italia è in guerra.

  1. Ma questa scelta di prendere parte in una guerra è un male?

Abbiamo visto che rispetto alla ratio sottesa al concorso di persone nel reato e alla dottrina della cooperazione al male, l’Italia sta a tutti gli effetti prendendo parte attiva in una guerra di cui giuridicamente o moralmente deve rispondere.

Dobbiamo però chiederci se questo atto di guerra è nel sistema giuridico italiano legittimo oppure no; se è un reato, per usare la terminologia del “concorso di persone”, o un peccato, per usare la terminologia della morale. Sotto il profilo etico, non vi è dubbio che la guerra è stata sempre considerata ammissibile in termini di extrema ratio e di legittima difesa. Non intendo soffermarmi adesso sulla dottrina etica generale sulla guerra che, in questo contesto, darò per scontata. Mi interessa invece il punto di vista del diritto italiano su quando una guerra è legittima.

Sotto questo profilo, il primo elemento è sostanziale e viene espresso dall’art. 11 della Costituzione:

«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Questo articolo incarna sia la dottrina etica tradizionale secondo cui la guerra ha un senso difensivo sia il concetto più circostanziato che la guerra non può essere ammessa dall’Italia come strumento per risolvere una controversia internazionale. Sotto questo aspetto, bisogna chiedersi se la guerra in corso tra Russia e Ucraina possa essere descritta in questo modo, cioè come risoluzione di una controversia internazionale oppure come guerra di difesa da parte dell’Ucraina contro un attacco ingiusto da parte della Russia.

Molti possono subito pensare che sia facile concludere nel secondo senso, eccetto che è anche un dato indubitabile che il conflitto tra Russia e Ucraina è in corso da anni e che la descrizione dei singoli eventi (Donbass, Crimea, strage di Odessa, ecc.) come atti di guerra, di terrorismo o di risoluzione di conflitti non è facile ed è in gran parte arbitraria.

È indubitabile, tuttavia, che la Russia e l’attuale Ucraina hanno certamente delle pretese o richieste reciproche e, sotto questo profilo, il conflitto in corso si può certamente descrivere anche in termini di risoluzione di conflitti internazionali. A questo si aggiunga che la descrizione del presente conflitto o guerra da parte dei paesi europei e filoamericani è in conflitto di interessi perché tra i fattori genetici del conflitto vi è pure il comportamento della NATO che, dal punto di vista della Russia (giusto o sbagliato che sia) è stato illegittimo e aggressivo.

È importante qui evitare un errore formale. Ai fini di descrivere l’esistenza di un conflitto non ha importanza il giudizio che una delle parti ne abbia nel merito. Ha solo importanza che le due parti abbiano richieste e pretese configgenti. È lo stesso per qualsiasi conflitto giuridico. I convenuti in un processo possono pure pensare che l’attore o ricorrente sia pazzo o scriteriato, ma ciò non toglie che lui abbia delle pretese che ritiene legittime e che ciò generi un conflitto di cui si chiede o pretende una soluzione. Ciò che dice la Costituzione italiana è che in presenza di un tale conflitto, la guerra non è una soluzione legittima.

Questa incertezza sulla descrizione della guerra in corso richiede molta prudenza soprattutto quando le parti del conflitto sono di per sé in grado di provocare danni oltre qualsiasi limite di ragionevole accettabilità.

  1. Deliberazione dello stato di guerra

Facciamo finta adesso che sia scontato o quantomeno ragionevole descrivere la guerra in corso come guerra di difesa e non di risoluzione di conflitti internazionali e che quindi l’eventuale partecipazione in essa non sia in sé contraria all’art. 11 della Costituzione. Facciamo finta, in altre parole, che la guerra in corso non sia un atto cattivo a cui non è lecito prendere parte (in base ai princìpi del concorso di persone nel reato e della cooperazione al male) ma un atto potenzialmente buono. Come va presa la decisione di parteciparvi nel nostro diritto? La risposta si trova in altri due articoli della Costituzione.

Art. 78 Cost.

«Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari»

Art. 87 Cost.

«[Il Presidente della Repubblica] Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere».

Le norme sono chiare e sintetiche. Uno stato di guerra va deliberato dal Parlamento e va fatto in modo dettagliato, conferendo al Governo i poteri necessari a combattere la guerra legittimamente deliberata. Come sempre, la Costituzione dà il potere decisionale supremo all’organo legislativo e rappresentativo, e al Governo il solo potere esecutivo. Lo stato di guerra deliberato dalle Camere va poi dichiarato dal Presidente della Repubblica nella qualità di comandante supremo delle forze armate. Lo stato di guerra, in altre parole, è un atto talmente grave da mettere lo stesso Presidente della Repubblica (e non il Presidente del Consiglio) in prima linea conferendogli anche la prerogativa e l’onere di presiedere un Consiglio supremo di difesa costituito in base alla legge.

Nel diritto italiano, entrare in guerra non è una scelta che può fare a cuor leggero il potere esecutivo né che può fare tra le righe di qualche provvedimento secondario lo stesso potere legislativo. Ci vogliono una delibera specifica delle Camere e la dichiarazione da parte del Presidente della Repubblica. E ci vogliono anche un Consiglio di difesa e un Governo che agisca in base alle decisioni del Parlamento.

Nel caso della guerra in Ucraina, in qualsiasi modo la si descriva, tutto questo non è avvenuto, il che è da solo sufficiente a descrivere l’intera azione attuale dell’Italia rispetto alla consegna di armi all’Ucraina come incostituzionale. Il fatto che un atto di guerra possa essere deciso e attuato con una tale faciloneria e indifferenza per il dettato costituzionale è di per sé particolarmente inquietante e allarmante. È come se i politici e le istituzioni in carica si fossero abituate ad agire con avventatezza e superficialità al di fuori del sistema costituzionale. Gli articoli 78 e 87, sotto questo profilo, dovrebbero anche garantire che i soggetti istituzionali valutino e ponderino bene e con il tempo sufficiente la gravità delle azioni di guerra in modo che esse non vengano lasciate alla frenesia e arbitrio del potere esecutivo. L’aggiramento del dettato costituzionale è quindi anche contrario alla prudenza e all’accortezza ed è indice di poca maturità politica e giuridica.

  1. Legittimazione dal Trattato Nord-Atlantico?

Il preambolo del Decreto Armi si appella, come fonte normativa della decisione di donare armi agli ucraini, al Trattato istitutivo della NATO. Infatti, dopo il richiamo di rito agli articoli della Costituzione sul procedimento del Decreto legge, il Decreto Armi recita così:

Decreto Armi, Preambolo

«Visti gli articoli 3 e 4 del Trattato del Nord-Atlantico, ratificato con legge 1° agosto 1949, n. 465».

Rileggiamo dunque il preambolo e gli articoli richiamati del Trattato.

Trattato Nord Atlantico (Washington, DC – 4 aprile 1949)

Preambolo

«Gli Stati che aderiscono al presente Trattato riaffermano la loro fede negli scopi e nei principi dello Statuto delle Nazioni Unite e il loro desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i governi. Si dicono determinati a salvaguardare la libertà dei loro popoli, il loro comune retaggio e la loro civiltà, fondati sui principi della democrazia, sulle libertà individuali e sulla preminenza del diritto. Aspirano a promuovere il benessere e la stabilità nella regione dell’Atlantico settentrionale. Sono decisi a unire i loro sforzi in una difesa collettiva e per la salvaguardia della pace e della sicurezza. Pertanto, essi aderiscono al presente Trattato Nord Atlantico».

Articolo 3

«Allo scopo di conseguire con maggiore efficacia gli obiettivi del presente Trattato, le parti, agendo individualmente e congiuntamente, in modo continuo ed effettivo, mediante lo sviluppo delle loro risorse e prestandosi reciproca assistenza, manterranno e accresceranno la loro capacità individuale e collettiva di resistere ad un attacco armato.

Articolo 4

«Le parti si consulteranno ogni volta che, nell’opinione di una di esse, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata».[5]

È del tutto evidente che anche nel contesto della NATO la guerra va intesa in senso difensivo e non come mezzo di risoluzione di controversie internazionali. È però anche evidente che il trattato istitutivo della NATO è un contratto che ha effetti tra le parti che lo hanno sottoscritto e non rispetto ai terzi. Gli articoli richiamati dal Decreto Armi sono molto chiari sul fatto che le parti del contratto mantengono la propria autorità individuale di attuare una guerra di difesa e si impegnano anche collettivamente in tal senso.

Le parti del trattato possono dunque agire anche nell’interesse di una di esse che debba resistere ad un attacco armato ma non possono né usare la guerra per motivi non difensivi né intervenire in difesa di chi non faccia parte della NATO. Se lo facessero si porrebbero al di fuori dei confini del Trattato stesso.

Posto che l’Ucraina non è parte del Trattato Nord-Atlantico, intervenire in difesa dell’Ucraina va quindi oltre i limiti del Trattato. Pertanto, visto che l’atto di armare una delle parti di un conflitto implica il partecipare alla guerra, questo atto va contro non solo la Costituzione italiana ma anche gli articoli del Trattato Nord-Atlantico citati dal Decreto Armi.

  1. Deroga alle leggi esistenti

Il preambolo del Decreto Armi si pone anche in deroga a due leggi esistenti. Ecco la parte che esprime questa deroga:

Decreto Armi, Preambolo

«Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza, connessa alla grave crisi internazionale in atto in Ucraina, di emanare disposizioni in deroga alla legge 9 luglio 1990, n. 185 e agli articoli 310 e 311 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 e alle connesse disposizioni attuative per sostenere le autorità governative ucraine, mediante la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari, semplificando le procedure vigenti, in coerenza con le esigenze di prontezza operativa che la crisi internazionale in atto richiede».

Vediamo di che si tratta:

Decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare)

Art. 310 (Cessione di beni mobili a titolo oneroso)

«1. Il regolamento, secondo le procedure di modifica da esso previste, individua nell’ambito delle pianificazioni di ammodernamento connesse al nuovo modello organizzativo delle Forze armate, i materiali e i mezzi suscettibili di alienazione e le procedure, anche in deroga alle norme sulla contabilità generale dello Stato, nel rispetto della legge 9 luglio 1990, n. 185.

      1. L’alienazione può avere luogo anche nei confronti delle imprese fornitrici dei materiali e mezzi da alienare, eventualmente a fronte di programmi di ammodernamento predisposti dalle imprese stesse, anche ai fini della relativa esportazione nel rispetto delle norme vigenti.
      2. Ai fini del contenimento dei costi per l’ammodernamento, l’amministrazione della difesa, nel rispetto delle vigenti norme in materia di esportazione di materiali d’armamento, può procedere a permute o vendite di mezzi e materiali obsoleti ma non ancora fuori uso.
      3. Fatto salvo quanto stabilito dal presente articolo e dal comma 4 dell’articolo 311, per la dichiarazione di fuori servizio e di fuori uso dei materiali, per la loro alienazione, cessione e prestito si applicano le disposizioni del regolamento».

Art. 311 (Cessione di beni mobili a titolo gratuito)

«1. Il Ministero della difesa può cedere a titolo gratuito materiali non d’armamento, dichiarati fuori servizio o fuori uso, in favore di: a) Paesi in via di sviluppo e Paesi partecipanti al partenariato per la pace, nell’ambito dei vigenti accordi di cooperazione; b) organismi di volontariato di protezione civile iscritti negli appositi registri.

      1. La cessione di materiali d’armamento dichiarati obsoleti per cause tecniche in favore dei soggetti di cui al comma 1 è consentita esclusivamente per materiali difensivi previo parere vincolante delle competenti Commissioni parlamentari.
      2. I materiali delle Forze armate impiegati per i soccorsi urgenti a favore di popolazioni colpite da calamità naturali, in Italia o all’estero, quando non ne è possibile il recupero, sono scaricati agli effetti contabili. Lo scarico è disposto con decreto del Ministro della difesa, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, e, quando si tratta di materiali utilizzati o ceduti per il soccorso a popolazioni estere, di concerto anche con il Ministro degli affari esteri.
      3. Nel regolamento, ai sensi del comma 1 dell’articolo 310, sono disciplinate le modalità per la cessione a titolo gratuito ai musei, pubblici o privati, dei materiali o dei mezzi non più destinati all’impiego, allo scopo di consentirne l’esposizione al pubblico».[6]

Legge 9 luglio 1990, n. 185 (Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento)

Art. 1 (Controllo dello Stato)

«L’esportazione, l’importazione e il transito di materiale di armamento nonché la cessione delle relative licenze di produzione devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia. Tali operazioni vengono regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».[7]

Non voglio soffermarmi qui sui motivi per fare eccezione anche all’articolo sulla cessione delle armi a titolo oneroso. Semmai sarebbe utile interrogarsi sulla legittimità e opportunità di derogare alle leggi sull’ordinamento militare e sugli armamenti mediante Decreto legge. Se si considera infatti la solennità con cui la Costituzione tratta l’eventualità di una guerra riservandone strettamente la decisione al Parlamento e il comando al Presidente della Repubblica, pare ovvio che anche la modifica di leggi relative alla guerra debbano seguire l’iter legislativo ordinario invece di finire nell’alveo degli atti aventi forza di legge del Governo.

Soprattutto, però, voglio adesso richiamare l’attenzione sul fatto che le norme a cui il Decreto Armi fa eccezione sono norme che ribadiscono il dettato costituzionale secondo cui la guerra è solo difensiva e appaiono esplicitamente al servizio o in esecuzione di tale dettato costituzionale. Va anche sottolineato che le leggi in vigore in tema di cessione di materiale d’armamento non consentono in ogni caso di cedere beni che non siano obsoleti o fuori servizio.

Il Decreto Armi pare voler esplicitamente ribaltare, nella frettolosità di questa decisione sull’Ucraina, non solo l’ordine dei poteri costituzionali in tema di guerra ma anche la ratio prudenziale che fino ad oggi ha guidato la redazione delle leggi in materia di difesa e di armamenti.

  1. Cambiale in bianco per il Governo

Torniamo adesso all’art. 1 del Decreto Armi, con particolare attenzione per il secondo comma:

Decreto Armi

Art. 1 (Cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari)

      1. Fino al 31 dicembre 2022, previa risoluzione delle Camere, è autorizzata la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina, in deroga alle disposizioni di cui alla legge 9 luglio 1990, n. 185 e agli articoli 310 e 311 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 e alle connesse disposizioni attuative.
      2. Con uno o più decreti del Ministro della difesa, di concerto con i Ministri degli affari esteri e della cooperazione internazionale e dell’economia e delle finanze, sono definiti l’elenco dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari oggetto della cessione di cui al comma 1 nonché le modalità di realizzazione della stessa, anche ai fini dello scarico contabile.[8]

Il meccanismo di funzionamento di questo articolo è quello di una cambiale in bianco per il Ministro della difesa e gli altri due ministeri interessati. Come ormai è diventata prassi nel nuovo stato italiano, il Governo pretende pieni poteri in bianco da parte del Parlamento, anche in diretto contrasto con l’ordine costituzionale.

  1. Violazione dell’art. 77 della Costituzione

Ci si dovrebbe anche chiedere se lo strumento del Decreto legge sia legittimo in un caso, come quello attuale, in cui gli effetti sono irreversibili. Il Decreto legge, infatti, attribuisce al Governo il potere d’urgenza di emanare un atto avente forza di legge ma soltanto in via provvisoria, visto che il Parlamento potrebbe poi porre questo atto nel nulla con effetto retroattivo. Le armi però non potranno essere restituite. Questo Decreto quindi equivale a tutti gli effetti ad un atto irreversibile. Leggiamo anche questo articolo della Costituzione.

Art. 77 Cost.

Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.

Quando, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.

I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.[9]

Forse è anche per questo che si è disposta nel Decreto Armi una previa risoluzione delle Camere rispetto all’invio delle armi, per ottenere una sorta di assenzo previo alla conversione in legge del Decreto. In altre parole, il Governo ha voluto crearsi un complice nel Parlamento. Come dire, “Io faccio questo atto d’urgenza illegittimo, ma tu devi autorizzare il decreto attuativo in modo da vincolarti alla conversione del decreto almeno su questo punto specifico”.

Va da sé che questo procedimento appare ancora più incostituzionale perché è come emendare l’art. 77 della Costituzione mediante un Decreto legge dicendo che, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo può emanare atti con forza di legge prevedendo una risoluzione del Parlamento previa alla loro esecuzione specifica e ottenendo in tal modo una promessa o obbligo di conversione in legge.

Purtroppo, questa prassi di usare il Decreto legge in maniera incostituzionale per atti in sé irreversibili è stata già introdotta con l’obbligo vaccinale e, come tutti questi abusi di potere, una volta che si sfonda una porta è difficile richiuderla.

  1. I cittadini non lo sapranno mai!

Il 2 marzo 2022, il Ministro della Difesa, in attuazione del Decreto Armi, ha emanato un decreto il cui comma del primo articolo recita così.

Art. 1 

      1. È autorizzata la cessione alle autorità governative dell’Ucraina dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari di cui al documento classificato elaborato dallo Stato maggiore della difesa (allegato).[10]

Il resto del decreto è brevissimo e dice fondamentalmente di fare molto in fretta. L’allegato è dunque classificato e non si può leggere. In altre parole, non possiamo sapere quali armi italiane in buono stato di funzionamento il Ministro della difesa sta cedendo agli ucraini.

Io non so se riesco a trasmettere adeguatamente quanto questa cosa sia inquietante oltre che incostituzionale. L’Italia è entrata in guerra contro la Russia saltando qualsiasi norma costituzionale, etica e prudenziale nel cui alveo una tale decisione dovrebbe essere presa. Il Governo è entrato in guerra con un Decreto legge la cui procedura è in sé incostituzionale rendendone subdolamente complice il Parlamento. Il Governo ha sostanzialmente preso su di sé poteri che non gli competono nel nostro ordinamento e, come ormai è prassi, ha chiesto al Parlamento una cambiale in bianco per poterlo fare liberamente. Infine, apponendo il segreto alla lista delle armi, quello che nel procedimento di legge sarebbe stato pubblico e che sarebbe rimasto nel potere del Parlamento è divenuto un atto di potere immenso e blindato nelle mani di pochi ministri del Governo. Il Parlamento e la democrazia sono stati sospesi, delegittimati, umiliati e messi da parte.

  1. Conclusione

Il meccanismo previsto dal Decreto Armi non ha niente a che vedere con la logica della Costituzione che prevede, in caso di guerra, una scelta ponderata e dettagliata da parte del Parlamento e l’intervento diretto del Presidente della Repubblica e del Consiglio supremo di difesa. In base al Decreto Armi, il Parlamento non si è neppure posto il problema di quali armi verranno date a soggetti stranieri esterni alla NATO e, quindi, del modo in cui l’Italia parteciperà alla guerra in corso tra due paesi esterni alla NATO. In base al primo Decreto attuativo del Decreto Armi ad opera del Ministero della Difesa, infine, queste cose non le sapranno mai neppure i cittadini italiani.

Lo stato in cui il potere esecutivo da solo ha questi poteri e agisce con questa libertà rispetto agli altri può avere molti nomi ma certamente non quello di democrazia o repubblica parlamentare e non quello di Italia, almeno finché sarà formalmente in vigore l’attuale costituzione.

Fulvio Di Blasi è avvocato e dottore di ricerca in filosofia del diritto. È un esperto di etica e del pensiero di Tommaso d’Aquino. Ha insegnato in diverse università, tra cui la University of Notre Dame (USA), The John Paul II Catholic University of Lublin (Polonia), l’Università Pontificia della Santa Croce (Roma) e la LUMSA (Palermo). Ha più di 200 pubblicazioni. I suoi libri recenti includono La morte del Phronimos: Fede e verità sui vaccini anti Covid e Vaccino come atto di amore? Epistemologia della scelta etica in tempi di pandemia. Sulle questioni della pandemia e dei vaccini anti Covid tiene settimanalmente lezioni sul suo canale YouTube.

[1] Cfr., DECRETO-LEGGE 28 febbraio 2022, n. 16, URL: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/02/28/22G00025/sg. Le sottolineature sono mie.

[2] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 25 marzo 1995, n. 74.

[3] «Speciale difficoltà presentano i casi di cooperazione al peccato del coniuge che volontariamente rende infecondo l’atto unitivo. In primo luogo, occorre distinguere la cooperazione propriamente detta dalla violenza o dalla ingiusta imposizione da parte di uno dei coniugi, alla quale l’altro di fatto non si può opporre. Tale cooperazione può essere lecita quando si danno congiuntamente queste tre condizioni: 1. l’azione del coniuge cooperante non sia già in se stessa illecita; 2. esistano motivi proporzionalmente gravi per cooperare al peccato del coniuge; 3. si cerchi di aiutare il coniuge (pazientemente, con la preghiera, con la carità, con il dialogo: non necessariamente in quel momento, né in ogni occasione) a desistere da tale condotta. Inoltre, si dovrà valutare accuratamente la cooperazione al male quando si ricorre all’uso dei mezzi che possono avere effetti abortivi» (Pontificio Consiglio per la Famiglia, Vademecum per i confessori su alcuni temi di morale attinenti alla vita coniugale, 12 febbraio 1997, n. 13-14).

[4] Naturalmente, uso qui il termine “peccato” in senso lato per indicare il male morale, e non nel senso specifico della religione.

[5] La sottolineatura è mia.

[6] La sottolineatura è mia.

[7] La sottolineatura è mia.

[8] Le sottolineature sono mie.

[9] La sottolineatura è mia.

[10] Cfr., Ministero della Difesa, Decreto 2 marzo 2022, Autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari alle Autorità governative dell’Ucraina ai sensi dell’articolo 1 del decreto-legge 28 febbraio 2022, n. 16. (22A01508) (GU Serie Generale n.52 del 03-03-2022), URL: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/03/03/22A01508/SG.

Fulvio Di Blasi

Fulvio Di Blasi è avvocato e dottore di ricerca in filosofia del diritto. È un esperto di etica e del pensiero di Tommaso d’Aquino. Ha insegnato in diverse università, tra cui la University of Notre Dame (USA), The John Paul II Catholic University of Lublin (Polonia), l’Università Pontificia della Santa Croce (Roma) e la LUMSA (Palermo). Ha più di 200 pubblicazioni. I suoi libri recenti includono "La morte del Phronimos: Fede e verità sui vaccini anti Covid" e "Vaccino come atto di amore? Epistemologia della scelta etica in tempi di pandemia". Sulle questioni della pandemia e dei vaccini anti Covid tiene settimanalmente lezioni sul suo canale YouTube.